mercoledì 17 giugno 2020

Editoriale Ongaico - Contro l'uso delle fragilità psicologiche come insulto


Troppe volte nella quotidianità contemporanea si usano parole legate all'ambito del disturbo mentale in senso offensivo.
Si tratta di una terminologia talmente radicata nel linguaggio comune che nella maggioranza dei casi viene adottata senza nemmeno più rendersene conto, tanto che è riscontrabile sia in contesti privati, sia in contesti pubblici e persino, cosa ancora più grave, in ambienti che vantano target di una certa levatura culturale.
A pensarci bene, non avviene esattamente la stessa cosa per malattie di altro genere: espressioni come "razza di cardiopatico" o "vai a farti curare da un fisiatra" suscitano ilarità, piuttosto che sembrare insulti.
Ma per quali ragioni, in una società che vuole definirsi progredita, la fragilità mentale è ancora oggetto di derisione, di vergogna o addirittura di stigmatizzazione? 
Un istinto ancestrale, negli animali come nell'uomo, suggerisce che l'individuo più debole debba essere lasciato indietro. Al giorno d'oggi però le scoperte in ambito scientifico hanno reso il problema fisico sempre meno impattante sulla vita quotidiana, tanto che non viene quasi più percepito come un potenziale handicap per il gruppo, per la società. Eppure ciò non avviene a livello psicologico: molti di noi quando incappano in un atteggiamento altrui che non ritengono "normale" reagiscono con derisione o con un irrigidimento. Sembrerebbe quasi che il pregiudizio di sapore medievale che associa queste patologie ad un'influenza maligna trovi ancora spazio in qualche angolo della nostra mente di uomini del Ventunesimo Secolo.
L'analisi sulle motivazioni dietro a questi atteggiamenti non è però il fulcro della mia riflessione, in quanto non li ritengo affatto giustificabili, specie se consideriamo quanto sono diffusi e pervasivi. Ciò che mi interessa è piuttosto ribadire che l'uso del disturbo mentale come insulto non solo è ingiusto e scorretto, ma anche estremamente pericoloso. Il disagio e l'ansia sono infatti solo la punta dell'iceberg, laddove il pericolo maggiore sarebbe lo scoraggiamento di ogni eventuale richiesta di aiuto, anche in situazioni estreme. Altro aspetto da non sottovalutare è che il rischio della derisione può rendere più difficile la ricerca di un confronto alla pari, portando così il malcapitato a sentirsi ancora di più escluso e inadeguato.
Ma ciò che trovo ancora più fuorviante è l'insinuazione (sempre sottesa a mentalità di questo tipo) che l'individuo percepito come affetto da un disturbo mentale abbia fatto qualcosa per meritare la sua condizione: scelte sbagliate, scarsa forza di volontà o addirittura autoinflizione. 
Che lottare contro sé stessi sia "difficile" e "brutto" (per usare i termini semplicistici a cui un certo tipo di società ci ha abituati) non c'è dubbio. Resta il fatto che la persona coinvolta in una simile esperienza non dovrebbe affatto suscitare derisione, quanto piuttosto un profondo rispetto.

6 commenti:

  1. Sì, hai perfettamente ragione e condivido la tua analisi.

    La società si è data, nei secoli, delle regole comuni di convivenza/comportamento e chiunque non è in linea con tali regole viene percepito come "pericoloso" o "inadeguato".
    Scatta così un atteggiamento di ostilità e di allontanamento che alcune volte provoca, in chi ne è fatto oggetto, una risposta oppositiva che fa scattare la negazione del problema col devastane risultato di non chiedere quel sostegno e aiuto che invece sarebbero indispensabili. Non per "lottare contro sè stessi" ma per "lavorare con amore per sè stessi", imparando ad accettarsi e affrontando/limando gli aspetti più problematici.

    Le regole nel tempo cambiano e in questi tempi potrebbe essere più veloce tale cambiamento, grazie ai media e ai social.
    Campagne di sensibilizzazione su questo tema sarebbe auspicabile che venissero realizzate.
    A mio parere un ruolo importante in tal senso lo potrebbero svolgere le Associazioni di auto-aiuto che, essendo composte da familiari, malati, medici ecc. hanno una capacità maggiore di farsi sentire, di organizzare convegni, campagne ecc. perchè più si è più forza/voce si ottiene.

    Un plauso e un incoraggiamento al tuo impegno per il riconoscimento del diritto ad un trattamento dignitoso delle persone fragili!

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    1. Assolutamente. Da dopo la quarantena mi sono trovata a dare qualche consiglio "da amica" a persone che hanno difficoltà come o più di me. Se dovessi riassumere i contenuti delle nostre conversazioni in un solo suggerimento generale, direi che è fondamentale tenere sempre presente la nostra dignità di esseri viventi e, qualora la si dovesse vedere calpestata, lottare (anche con forza) per farla rispettare.

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  2. Ho letto uno dei libri di Sacks (L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello) che hai suggerito compreso il capitolo su Ray.

    Mi ha colpito molto l'atteggiamento aperto e positivo di Ray, il fatto che abbia trovato il compromesso adeguato per sè, risolvendo con intelligenza i suoi problemi.

    Senza farsi trascinare da un senso di conservazione distorto, ha posto fine ad una vita travagliata, ha chiesto aiuto e accettato l'uso del farmaco. Questo non l'ha privato della capacità di discernimento ma anzi, con grande lucidità, gli ha permesso di trovare un escamotage per conservare quella parte di sè più "frizzante" che amava.

    Questo è quello che ho colto di questa vicenda, un mio personale parere.
    Prossimamente guarderò il film che hai suggerito.

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    1. Riguardo al caso di Ray, temo che lo stile di Sacks, sempre molto leggero ed ironico, possa avere dato luogo a un happy ending che in realtà non c'è stato. Purtroppo la vita di Ray è stata pericolosamente "sdoppiata" tra il Ray con e il Ray senza il farmaco.

      Riguardo poi all'impiego dei farmaci nella di Sindrome di Tourette, vorrei specificare che si parla di neurolettici molto pesanti, impiegati solitamente nel contenimento di crisi schizofreniche o psicotiche. Farmaci che tra l'altro non curano il disturbo, ma i suoi sintomi.

      Credo, e lo esprimerò meglio nell'editoriale a cui sto lavorando, che si debba stare attenti a classificare a priori in modo positivo l'atteggiamento di chi decide di "accettare i farmaci" e in modo negativo quello di chi non lo fa, specialmente per quelle "sindromi" di cui si sa molto poco. Secondo me la domanda fondamentale per convivere in modo equilibrato con questo tipo di disturbi riguarda piuttosto un'analisi costi-benefici. Qualora le soluzioni che ci vengono proposte non dovessero essere soddisfacenti, abbiamo il diritto (peraltro costituzionale) di cercare cure di tipo diverso.

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  3. Ci tengo a chiarire che non critico affatto chi non usa farmaci. La decisione di Ray di farne uso è seguita ad un lavoro durato tre mesi durante i quali ha fatto un faticoso lavoro di "immaginazione" sulle cose che avrebbe potuto fare senza la Sindrome. Probabilmente "per lui" il desiderio di ciò che ne avrebbe guadagnato è stato tanto forte da superare i suoi dubbi sugli effetti collaterali che il farmaco comportava.
    Ciò che non sappiamo è se dopo i nove anni di osservazione abbia avuto problemi....
    Sicuramente ogni caso è diverso e non si può generalizzare, l'importante è che il metodo che si decide di seguire possa dare la miglior qualità di vita possibile.

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    1. Ne sono felice!
      Purtroppo il clima dalle mie parti è piuttosto "caldo" e, a volte, può capitare che mi scaldi.
      Non è mai però contro la persona, ma soprattutto contro certe idee che sono in circolo e che rischiano di causare problemi ha chi decide di seguire cure ragionevolmente alternative. ;-)

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